Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere -politiche, linguistiche, sociali, culturali,psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi. Oltrepassare frontiere; anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forma, salvandola così dall’indistinto – ma senza idolatrarle, senza farne idoli che esigono sacrifici di sangue. Saperle flessibili, provvisorie e periture, come un corpo umano, e perciò degne di essere amate; mortali, nel senso di soggette alla morte, come i viaggiatori, non occasione e causa di morte, come lo sono state e lo sono tante volte.
CLAUDIO MAGRIS
Qualche anno fa il treno Budapest – Sarajevo è stato il mio primo impatto con la Bosnia Erzegovina. Arrivavo da Osjek in Croazia, sette ore di viaggio di cui una e mezza persa tra cambi e check point. Controllo documenti delle autorità croate alla partenza, al passaggio del confine cambio del locomotore e cambio del personale con quello serbo-bosniaco e secondo controllo documenti. A Doboj il terzo cambio, questa volta sale il personale bosgnacco-croato, si cambia nuovamente la locomotiva, terzo controllo al passaporto e finalmente via verso la capitale. “La Gerusalemme d’Europa”, “la porta d’oriente”, “la Stalingrado dei Balcani”, e così via, la Sarajevo degli stereotipi infiniti e abusati, guadagnati in un secolo breve di eventi incredibili: qui il 28 giugno del 1914 con l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede della corona austro-ungarica, e di sua moglie Sofia da parte del serbo Gavrilo Princip inizia la Prima Guerra Mondiale. Sempre qui, col suo sanguinoso assedio durante la guerra di Bosnia (1992-95), la città è diventata il simbolo della dissoluzione sanguinosa della Jugoslavia e della fine dei Communismi.
Dagli Accordi di Dayton del novembre 1995, che posero fine alla guerra, il territorio è diviso in due entità: la Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina (Republika Sprska), sette regioni con capitale Banja Luka, a cui è stata assegnata circa il 49% del territorio disposto lungo il confine tra Serbia e Croazia; e la Federazione di Bosnia Erzegovina (Federacija Bosne i Hercegovine), detta anche Federazione croata musulmana o più semplicemente Federacija, suddivisa in dieci cantoni con capitale Sarajevo. A queste si aggiunge il Distretto di Brčko, una piccola unità amministrativa autonoma sul confine nord con la Croazia.
Le entità hanno ordinamento proprio, e l’attività amministrativa dell’intero stato è controllato da un Alto Rappresentante, la cui nomina e poteri (incluso quello “d’imporre leggi”) è stabilito negli accordi di Dayton stessi.
Una spartizione ufficialmente in due ma di fatto in tre (senza contare chi non appartiene alle tre componenti maggioritarie, che per Dayton non esiste politicamente), perché all’interno della Federacija croati e bosgnacchi (bošnjaci, bosniaci musulmani) non convivono pacificamente, specialmente nell’Erzegovina, dove il pretesto dell’odio etnico paralizza lo sviluppo civile con ostruzionismi reciproci e provocazioni violente, lasciando l’attività amministrativa alle imposizioni internazionali, quando non alle mafie locali.
Le frontiere questo montagnoso pezzo d’Europa, racchiuso nell’entroterra sud orientale dalla Croazia, il Montenegro e la Serbia non sono solo quelle geopolitiche, ben definite dalle carte geografiche, ma quelle sociali, religiose, etniche, umane che corrono all’interno del suo territorio come i suoi numerosi fiumi, lungo la linea interetnica che la divide in due entità, lungo le strade tra le città dello stesso cantone, su un ponte che spacca in due la stessa comunità.
La mia prima visita fu inevitabilmente scandita dalle immagini della guerra recente, dal bombardamento mediatico che mi investí agli inizi dei Novanta, quando avevo 11 anni, che poi si arrestò completamente lasciandomi una visione della Bosnia, e dei Balcani in generale, congelata a vent’anni fa.
Invece mi ritrovai immerso in un Paese dai contrasti e dalla vitalità sorprendenti. La sua condizione di non stato, il suo labirintico e farraginoso impianto burocratico daytoniano lo condanna a un immobilismo politico, amministrativo ed economico pressochè totale, però tra le maglie di questa tela cominciai a intravedere una comunità brillante, attiva e costruttiva che seppure intrappolata dall’uso personalistico del potere delle elite post-belliche, mi conquistò per la sua vitale combattività.
Sarjevo è attiva e moderna. Così come il suo assedio è stato il simbolo della Guerra, la sua ricostruzione doveva essere il simbolo della rinascita dello stato: ricostruita, modernizzata, occidentalizzata, è diventata in pochissimo il centro del turismo di massa che qui in Bosnia in “24 ore” attraversa Međugorje, Mostar, Sarajevo appunto, e poi riporta le comitive sulle coste dalmate della croazia.
E’ la capitale dello stato, ma di fatto è la capitale della Federacjia, perché i serbi di bosnia hanno la loro: Banja Luka. Più austera nella sua architettura socialista, più povera inevitabilmente, e più ingessata nelle dinamiche quotidiane. Il gruppo di potere che controlla economicamente la città, e tutta la Republika Serpska, è ristretta e ruota attorno a Milorad Dodik, padrone assoluto dell’entità serbo-bosniaca.
La modernità e contemporaneità dei palazzi amministrativi e dei grattacieli delle multinzionali sono il volto odierno delle capitali, però la Bosnia Erzegovina è fortemente rurale nel suo cuore impervio, in quelle montagne riparo naturale per la lotta clandestina dei partigiani di Tito, lungo i tornanti dove lo scudo a scacchi bianchi e rossi della Hrceg-bosna si alterna al giallo e blu della bandiera ufficiale, i campanili ai minareti a seconda dell’etnia cantonale. Sembra banale ma ogni dettaglio è divisorio, è una provocazione capillare: il numero civico blu sulle case mi dice che sono in territorio croato bosniaco, la chiamata del muezzin soffocata dai rintocchi delle campane che sono in terra musulmana ma i cattolici non sono lontani, un cartello in cirilico che sto entrando in territorio serbo.
Nonostante i cingoli della Storia le tradizioni dei bosniaci, tutti, sono indistrutibili nei secoli, come i dettagli elevati a simboli perenni dalla letteratura di Ivo Andrić, il Ponte sul fiume Drina che «in mezzo a quella tempesta che si riversò sulla città, scotendo dalle fondamenta e rovesciando antiche abitudini, uomini vivi e cose morte, il Ponte continuò a stare in piedi, bianco, duro e invulnerabile, come era stato da sempre», o il Caffè di Lutvo, ai piedi del Monte Vlašić, all’ombra del castello di Travnik, «Ormai neanche gli anziani ricordano Lutvo,il suo proprietario; da almeno cent’anni egli riposa in uno dei cimiteri intorno alla città. Tuttavia si va sempre a “prendere un caffè da Lutvo”, e così ancora oggi il suo nome ricorre spesso nelle conversazioni, mentre quello di tanti sultani, visir e bey è da tempo sepolto nell’oblio».
Tradizionalismo e conservatorismo, estremizzati ancor più dagli Accordi di Dayton che sanciscono le appartenenze etniche, ma curiosamente la Bosnia è anche l’ex repubblica dove la nostalgia per la Jugoslavia è più forte, e la figura di Josip Broz Tito continua a essere celebrata ovunque.
«Quando ero alle elementari, ci raccontavano la storia di quando la Jugoslavia “uscì” dal Kominform. Stalin inviò a Belgrado un treno pieno di riso con un biglietto per Tito dove era scritto che ognuno di quei chicchi era un soldato sovietico pronto a invadere la Jugoslavia in ogni momento. Tito, senza paura, rispose inviando a Mosca una bottiglietta di peperoncino piccante in polvere con su scritto: “Jugoslavia, piccola ma molto piccante, non agitare».
In realtà il Maresciallo ebbe molta paura quando nel 1948 la Jugoslavia venne espulsa dal Kominform, e a ben ragione, era entrato in rotta di collisione col più sanguinario dittatore del XX secolo. Eppure questa storiella riadattata, che mi raccontò il gestore del mio ostello di Mostar, è un piccolo contrasto sull’immaginario della Bosnia, nella città dove il fiume Neretva separa bosgnacchi da croati, in un paese caratterizzato dalla divisione capillare della società civile, è maggiore la nostalgia per il più importante esperimento unitario dei Balcani occidentali.
L’anno scorso si sono celebrati i cent’anni della Prima guerra mondiale, quest’anno è il ventesimo anniversario dalla fine della Guerra di Bosnia, degli Accordi di Dayton, dell’assedio di Sarajevo, del massacro di Srebrenica. Il mio viaggiare per la Bosnia Erzegovina col tempo si è arricchito: non più solo la guerra, ma la letteratura, il cinema, la Storia e in generale la quotidianità di un dopoguerra ventennale, destinato a protrarsi ancora, poco interessanti mediaticamente, che hanno relegato questo pezzo d’Europa, trascurato ma importantissimo nei nuovi assetti geopolitici, all’oblio completo.
In viaggio per la Bosnia Erzegovina, a vent’anni dalla sua nascita. (Photogallery)