Slovacchia anno 20

«Taglio la Slovacchia in orizzontale verso Zvolen, la prima delle tre coincidenze che mi aspettano a bordo di uno di quei treni a cabine da sei, dismesso dalle nostre Ferrovie dello Stato e “ceduto” alla giovane Repubblica slovacca, privo di aria condizionata o tendine che possano proteggermi dal sole della sterminata campagna. I castelli in rovina, simbolo della grandezza magiara dei secoli lontani, si alternano alle piccolissime stazioni che sembrano edifici abbandonati nella prateria e servono paesini di casette dallo scheletro in legno (drevenice), col tetto in ardesia invecchiata. Mi fa sorridere, perché mi sembra di vedere la mia Sardegna là fuori, con le sue case in ladiri dai comignoli già fumanti, immerse nella piana ambrata dell’autunno, a leggere quei nomi che quando non sono impronunciabili hanno il suono di casa: Tonal’a, Kriván…».

Il treno, come raramente mi è capitato, è stato il mezzo principale dei miei spostamenti, da est a ovest lungo la Slovacchia a vent’anni esatti dalla separazione con i fratelli cechi, da Košice a Bratislava, per terminare nell’ex capitale comune Praga.

Un viaggio di appena due settimane nell’autunno del 2013, che oltre a farmi vedere un po’ del territorio e conoscere alcune delle tradizioni legate alla cultura agropastorale, è stata l’occasione per scoprire superficialmente la Storia di questa nazione nel cuore del vecchio continente, la sua memoria, la contemporaneità, le relazioni diplomatiche altalenanti con i confinanti, i rapporti controversi con le minoranze.

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Così ho cominciato a Košice, a ottanta chilometri dal confine ucraino, la frontiera della “nuova” Europa. Quest’anno città della cultura assieme a Marsiglia, è simbolica per il rapporto difficile con la comunità rom, perché appena fuori città, nel sobborgo chiamato Lunìk IX (distretto 9), c’è il più grande quartiere ghetto d’Europa. Alcune stime parlano di circa settemila residenti, con la disoccupazione attorno al 99% e in generale condizioni di vita di totale indigenza.

Dagli anni novanta, dovrebbe essere in corso un programma di recupero dell’area, che prevede il graduale reinserimento delle famiglie meno problematiche in diverse parti del Paese, in osservanza delle leggi europee sul rispetto delle minoranze. Di fatto però, le azioni vanno nel senso opposto. Appena qualche mese fa è stato eretto un altro muro per separare i “cittadini inadeguati” dei quartieri Luník VIII e Luník IX dal resto della città. Un muro che non rappresenta né di fatto né simbolicamente l’integrazione, il quattordicesimo di questo genere nella virtuosa Slovacchia, che ovviamente ha ricevuto le condanne dall’Europa.

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Nella regione dei Bassi Monti Tatra (Nízke Tatry), inerpicata nella caldera Štiavnické vrchy, c’è la piccola città mineraria di Banská Štiavnica, parimonio dell’Unesco. L’attrazione principale è ovviamente il sito minerario, chiuso definitivamente negli anni ’90 e oggi trasformato in museo, dove si può ripercorrere la storia di Banská Štiavnica, che nel XVIII secolo era la terza città del Regno d’Ungheria. E proprio qui nel cuore d’Europa venne utilizzata per la prima volta nella storia la polvere da sparo per scopi minerari.

La memoria, pero’, passa soprattutto tra i valichi dei Carpazi come il Passo di Dukla, dove la storia militare delle due Guerre ha scritto alcune delle pagine più sanguinose di questa regione: da Banská Bystrica il 29 agosto del 1944 la Resistenza slovacca dichiarò l’Insurrezione nazionale slovacca (Slovenské národné povstanie, SNP) contro lo stato filonazista di Jozef Tiso.

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A Banská Bystrica il comando degli insorti istituì il suo quartier generale, e il museo dedicato a quell’esperienza coraggiosa e tragica racconta con dovizia di particolari (documenti, uniformi, armi, utensili da campo, giornali clandestini, etc.) la cronaca, i tradimenti, le ostruzioni interne, le diffidenze tra le potenze internazionali e la disorganizzazione politico-militare che portarono al fallimento del sollevamento. In eredità rimase un movimento di resistenza che continuò la guerriglia fino alla liberazione del 1945, e uno strascico di relazioni caratterizzate da ambiguità, freddezza, contrasti tra ceco-slovacchi, russi, tedeschi, ungheresi e polacchi.

Con la fine della Seconda guerra mondiale, e l’annessione della Cecoslovacchia nella sfera d’influenza sovietica, l’SNP viene trasformato in episodio di propaganda. Nel 1954, a dieci anni dal sollevamento, viene istituito il museo del Slovenské národné povstanie, e tutt’oggi, dopo la caduta del comunismo e la separazione, la memoria del SNP è un punto cardine dell’identità democratica slovacca, celebrato ogni 29 agosto, per cercare di tenere vivo il pensiero antifascista.

Un pensiero sempre più debole, come ha ricordato il presidente Ivan Gasparović qualche mese fa in occasione del 69ª anniversario. E proprio qui, nella regione di Banská Bystrica, uno dei politici più attivi è l’estremista Marian Kotleba, che si presenta in pubblico con tanto di divisa militare e tutta la demagogia nazionalista, anti europeista e anti rom. Tra i suoi punti anche quello di “rivalutare” la figura di Jozef Tiso.

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Dove le acque del fiume Vah confluiscono nel Danubio, l’unica linea indelebile nella rete delle volubili frontiere europee che oggi separa la Croazia dalla Serbia, la Romania dalla Bulgaria, l’Austria dalla Slovacchia, e quest’ultima dall’Ungheria dal Trattato di Trianon del 1920, si trova Komárno, o Komárom per gli ungheresi. Questo piccolo centro di frontiera non è in cima alle attrazioni della Slovacchia, la mia guida turistica nemmeno la nomina. Però, qualche settimana prima di partire nel portale The Slovak spetactor si parlava del regista americano Ivan Reitman (Ghostbusters) insignito della cittadinanza onoraria di Komárno. Nacque qui, nel 1946, e ancora bambino si trasferì con la famiglia oltreoceano.

Questo articolo di costume mi ha riportato alla mente il nome di questa cittadina fluviale, perché Komárno è il centro culturale della comunità magiara in territorio slovacco. Secondo i dati del 2011, circa il 54% della sua popolazione è ungherese, il 33,5%  slovacca e il resto è divisa tra rom, cechi, ucraini, russi e tedeschi, inoltre dal 2004 vi risiede la Selye János Egyetem, la prima università in lingua magiara del territorio. Komárno, ufficialmente, è anche la sede dei serbi di Slovacchia, residuo delle emigrazioni lungo questi argini fin dai tempi dell’Impero austro ungherese.

E La “questione magiara” non è mai stata chiusa, nonostante sia passato quasi un secolo, anzi a fasi alterne viene riattizzata al di qua e al di là del confine. Nei primi anni della sua indipendenza è stata la Slovacchia a distinguersi per la particolare aggressività del confronto, sia durante il quinquennio Mečiar che arrivò a richiamare i decreti Baneš del ’45 ufficialmente mai cancellati, ma anche durante il primo governo Fico e la sua larga alleanza “rosso-bruna”, molto larga verso l’estrema destra di Jan Slota, durante il quale venne proposto il Patriot act, una serie di leggi che dovevano rivedere le materie scolastiche in un senso più “patriottico”.

L’attuale governo di Robert Fico appare più “centrato”, e grazie anche alle diverse frequentazioni di governo, sembra meno radicale in materia di minoranze.

Attualmente i toni esasperati giungono dalla riva sud del Danubio, dall’Ungheria di “Király Orbán”, che dal 2010 governa con una maggioranza assoluta e detiene più dei due terzi del parlamento grazie all’alleanza con il partito estremista Jobbik, che in diverse occasioni ha parlato dell’obbligo dell’Ungheria di prendersi cura dei suoi cittadini oltre confine, chiara allusione alle minoranze in Slovacchia e Romania, e surriscaldando gli animi lungo il nobile fiume e non solo.

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A Bratislava la Storia ci è passata coi piedi di piombo, con i cannoni, i cingoli e le colate di cemento che ne hanno stravolto l’aspetto infinite volte. Prima l’oblio quando la corte degli Asburgo si trasferì a Vienna, successivamente Napoleone durante la sua campagna di Russia l’ha quasi rasa al suolo, qualche incendio catastrofico, e infine il Comunismo che in nome della brutale funzionalità con una sciabolata di cemento armato ha spaccato in due il centro storico con un incredibile ponte il cui belvedere fantascientifico si eleva sul Danubio quanto il Hrad (castello) sulla collina.

Così come i suoi tre nomi Pressburg in tedesco, Pozsony in ungherese, Bratislava conserva tutti i segni del suo passato. Tra i tanti ce n’è uno in particolare, legato a un uomo la cui meteora politica ha scritto una delle pagine più dolorose e importanti del XX secolo. Nel piccolo cimitero di Slávičie údolie è sepolto Aleksander Dubček, leader politico della Primavera di Praga, il periodo storico di liberalizzazione avvenuto nella Cecoslovacchia comunista all’inizio del 1968 e soffocato dall’invasione dei paesi del Patto di Varsavia nell’agosto dello stesso anno.

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Era nato a Uhrovec nel 1921, e nel 1968, un anno unico non solo oltrecortina ma in tutto il mondo, venne scelto per rappresentare il nuovo corso del “comunismo dal volto umano”, che però non corrispondeva alla vera faccia dell’autoritarismo sovietico, quella di Leonid Brežnev. Dopo l’invasione della Cecoslovacchia Saša Dubček sparì dalla scena politica, per riaparire vent’anni dopo affacciato sulla piazza Venceslao di Praga accanto a Václav Havel, intelletuale e leader della Rivoluzione di velluto, che nell’inverno di quell’incredibile 1989 aveva definitivamente rovesciato il regime socialista.

Morirà nell’autunno del 1992, appena qualche mese prima della separazione ufficiale tra Repubblica ceca e Slovacchia, ribattezzata Separazione di velluto.

E’ stato divertente percorrere fisicamente e storicamente la Repubblica Slovacca, perché è inevitabilmente la Storia contemporanea dell’Europa, quel progetto unitario, che anche se maltrattato recentemente, rappresenta simbolicamente questo e tutti i miei viaggi, e di cui la giovane repubblica slovacca, con tutte le sue contraddizioni di giovane nazione e in cerca di una dimensione identitaria consolidata, è uno degli esempi più virtuosi a quasi un decennio dal suo ingresso nella Comunità.

Nel cuore dell’Europa, vent’anni di Slovacchia. (Photogallery)

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