Budapest mi si apre in tutta la sua importanza non appena esco dalla stazione Nyugati, camminando sulla Nagykorut (gran boulevard) verso Oktogon. La sua immensità inarrivabile e magnifica è al massimo splendore nell’aristocratica Buda, riva ovest del Danubio, dove dall’alto del castello e nelle viuzze della cittadella si domina tutta la città; trascurata e dismessa nella più animata Pest, con la sua vita notturna immersa nell’eleganza corrosa dal tempo dei suoi palazzi barocchi. E’ il volto più commerciale e noto dell’Ungheria del terzo millennio, piegata da un secolo di sconfitte e umiliazioni, e aggredita dalla crisi economica, qui particolarmente intensa, e amplificata dalla malinconia e dal pessimismo magiaro. Budapest, nobile e decaduta, attraversa l’Europa con i suoi abiti reali, oggi però sgualciti e trasandati, le cui medaglie e blasoni non incutono più sudditanza, ma comunque rispetto e ammirazione per la sua signorilità.
Il quartiere residenziale di Oktogon, dove risiedo, prende il nome dalla forma dell’incrocio tra la Nagykorut e la Andrássy utca, la sua arteria principale. Nella storia quest’intersezione ha avuto diversi nomi, fra i quali Piazza Mussolini durante il quinquennio 1939-44, quando l’Ungheria era lo Stato fantoccio nazista delle Croci frecciate.
La sua boulevard intitolata a Gyla Andrássy, politico conservatore dell’impero austro-ungherese tra il 1867 e il 1879, sfocia nell’ampia Hosok tere (piazza degli eroi), la cui colonna con l’arcangelo Gabriele sormonta le statue dei padri fondatori dell’Ungheria.
Tra i vari edifici che circoscrivono questa piazza uno ha un significato particolare: è l’attuale ambasciata serba, prima ambasciata della Jugoslavia. E’ qui che Imre Nagy trovò rifugio dopo la rivoluzione ungherese soffocata dai carri armati sovietici nel novembre del 1956.
Così, da qui ripercorro la Andrássy ut. a ritroso, tra i suoi imponenti palazzi, passo davanti alla Terror Haze, il museo sui crimini del comunismo dedicato ai caduti della rivoluzione del ’56. La storia di quel sussulto isolato e tragico del quarantennio comunista ungherese corre lungo le strade della città, fino al Palazzo del parlamento, unico nella sua candida bellezza sulla riva del nobile fiume d’Europa. I tank dell’Armata Rossa cinquantasette anni fa arrivarono anche qui, e avrebbero fatto fuoco senza batter ciglio se i ribelli asserragliati al suo interno non si fossero arresi. Qui di fronte, sulla Kossuth Lajos tér, al momento chiusa per i lavori di ampliamento della metropolitana, c’è il memoriale ai settantacinque studenti uccisi durante i primi giorni dei disordini, e poco più giù, sulla Vertanuk tere, si trova il monumento in bronzo intitolato a Nagy il leader e martire di quel tentativo di libertà, raffigurato in piedi su un piccolo ponte, col cappello calcato in testa, gli occhialini tondi e i baffoni, che guarda al Parlamento.
La Rivoluzione d’Ungheria per la Storia durò appena due settimane, dal 23 ottobre al 7 novembre del 1956, lasciando circa 4.000 morti, solo negli scontri. Fu un anno particolare quel 1956 per la storia internazionale, tante cose accaddero, eventi che diedero l’illusione di un cambiamento, e invece conservarono la situazione com’era. La Seconda Guerra Mondiale era terminata da un decennio, la “cortina di ferro” che era calata dal Baltico a Trieste divideva implacabilmente il mondo in due, la Guerra Fredda era in uno dei suoi momenti di maggiore intensità.
Gli anni del dopoguerra di Stalin furono caratterizzati sempre più dal culto della sua personalità, e dalla politica del terrore che puntava stroncare qualsiasi forma di riformismo interno al socialismo. Soprattutto dal ’48, quando ci fu la rottura con la Jugoslavia di Tito, questa forma di controllo fatta di sospetti, eliminazioni politiche e fisiche, delazioni si era fatta ancora più stretta negli altri paesi satelliti.
L’uomo del partito in Ungheria, paese sconfitto quindi sorvegliato speciale, era Mátyias Rákosi, stalinista puro, autore di una violenta epurazione dei suoi avversari, esterni e interni allo stesso partito accusati a vario titolo di riformismo, che dal ’48 al ’53 aveva eliminato il 50% dei membri del comitato centrale.
Quando, nel 1953 Joseph Stalin muore, e al suo posto arriva Nikita Kruscev, l’uomo della “destalinizzazione”, sull’Europa comunista sembra arrivare un nuovo vento. Sembra.
Con l’avvento del nuovo segretario generale a Mosca, Rákosi viene rinquadrato, in linea con la nuova politica. Mantiene la guida del partito, però a capo del governo il 4 luglio viene scelto Imre Nagy, comunista leninista dalla visione più riformista, già avversario di Rakosi. La faccia ideale per il socialismo dal volto umano.
La sua politica si caratterizza principalmente per una linea meno persecutrice, come Kruscev in URSS anche qui sono liberati e riabilitati numerosi prigionieri politici comprese importanti personalità ecclesiastiche, e per una serie di riforme d’alleggerimento economico verso la classe contadina e operaia. Ma l’ala conservatrice era ancora molto forte, così nell’aprile del 1955 il partito gli toglie l’appoggio sostituendolo col meno “moderno” Andras Hegedus.
Nonostante il siluramento di Nagy, il moto riformista continuava, sostenuto da un illusorio clima di distensione internazionale dell’unione Sovietica verso le altre repubbliche popolari, il rasserenamento e l’accettazione della Jugoslavia fuori dall’influenza di Mosca faceva pensare, a torto, che anche per gli altri paesi ci poteva essere un’”altra via al socialismo”.
A confermare quest’illusione sarà il terremoto politico del XX congresso del Pcus. Dal 14 al 26 febbraio del 1956 si tiene il primo congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica dalla morte di Stalin, che passerà alla storia per il rapporto segreto di Kruscev, con il quale denuncerà i metodi del suo predecessore.
E’ un colpo durissimo per tutti i regimi comunisti del neonato Patto di Varsavia (sottoscritto solo l’anno precedente), e le reazioni non tardano a manifestarsi.
Comincia la Polonia, il 28 giugno a Poznan una manifestazione operaia è soffocata dalla polizia lasciando 54 morti e più di trecento feriti.
In Ungheria, il movimento di protesta si allarga dai circoli universitari e dagli ambienti intellettuali che chiedono maggiore libertà d’espressione. Il 6 ottobre una prima grande manifestazione porta circa trecento mila persone per le strade di Budapest.
Ma la rivoluzione comincia inaspettatamente qualche settimana dopo, il 23 ottobre.
Il giorno prima gli studenti del circolo dissidente Petofi stilano un documento di sedici punti che dovrà servire da programma per la manifestazione del giorno dopo. Nel documento si chiede il ritorno di Nagy alla guida del governo, libertà di stampa, una politica economica non dettata da Mosca ma più inerente alla realtà ungherese, la fine del monopartitismo, e soprattutto l’uscita dal Patto di Varsavia e il ritiro delle truppe sovietiche dal suolo magiaro.
La mattina del 23 la gente si riversa per le strade di Budapest, il corteo cresce velocemente superando le duecentomila persone tra studenti, operai, braccianti e piccoli borghesi, si intonano cori contro l’élite politica filo sovietica, soprattutto contro Gero, il presidente che nel frattempo aveva sostituito Rákosi alla guida del partito.
La manifestazione, già molto tesa, si trasforma subito in insurrezione: viene distrutta la statua di Stalin, librerie sovietiche son date alle fiamme e, a seguito della diffusione di un discorso sul “debito storico” verso l’Urss viene attaccata l’emittente radiofonica.
La situazione incontrollabile degenera presto in tragedia, l’esercito e la polizia politica, l’AVH, aprono il fuoco sugli insorti, molti dei quali armati a loro volto ingaggiano lo scontro. Per le strade della capitale è guerriglia. Il 25 ottobre avviene il fatto più tragico, l’AVH spara su un gruppo di manifestanti disarmati davanti al parlamento, i morti sono settantacinque.
Il partito prova a riparare nella speranza di far rientrare i disordini, rinominando Imre Nagy al governo il 24 ottobre, e dopo l’eccidio del 25 sostituendo Gero con Janus Kádár alla guida del partito.
Contemporaneamente, però, chiede all’Armata Rossa di intervenire per ristabilire l’ordine. Il 24 ottobre alcune divisioni sovietiche entrano in città, ma si scontrano con la resistenza dei cittadini che combattono con armi procurate saccheggiando stazioni della polizia, oppure fornite dalle centinaia di militari ammutinati. Le immagini innovative della guerriglia fatta di barricate tra i vicoli, di bombe artigianali lanciate dai balconi arrivano nel mondo occidentale attraverso i primi televisori del boom economico.
Gli scontri continuano fino al 29, quando i russi cominciano a ritirarsi. Il 30 ottobre Imre Nagy annuncia la formazione di un governo quadripartitico, vengono aperte le prigioni della polizia politica, scoperte fosse comuni. Nella capitale sventola la “bandiera bucata”, il tricolore sforbiciato nel centro dai simboli del comunismo, si piangono i caduti e si giustiziano sommariamente i collaborazionisti.
Nagy fa sue in blocco le istanze dell’insurrezione: chiede libere elezioni, l’uscita dal Patto di Varsavia e la neutralità dell’Ungheria. La Rivoluzione ha vinto.
Ma è solo un bluff. L’Urss dà l’impressione di discutere con Nagy e gli insorti, mentre in realtà porta avanti segretamente le trattative con Kádár e la nuova dirigenza per “ri-stalinizzare” il Paese, e l’Armata Rossa che sembrava avesse abbandonato il campo sta invece serrando i ranghi e controlla tutte le più importanti vie di comunicazione magiare.
A complicare le cose ci si mette anche la sfortunata congiuntura internazionale. Nell’ottobre di quel 1956 é scoppiata la guerra del Canale di Suez tra l’Egitto e l’alleanza franco-anglo-israeliana. L’attenzione che i ribelli speravano di attirare “oltre cortina” era rivolta altrove sullo scacchiere mondiale, e nemmeno i partiti comunisti occidentali, Italia e Francia, si schierarono per la rivoluzione.
L’Ungheria era fatalmente stretta nella morsa del Cremlino, ed era più che mai sola.
All’alba del 4 novembre diciassette divisioni dell’Armata rossa sferrano il loro attacco su Budapest, completamente circondata dalla notte precedente. Una colata di acciaio e cingoli si riversa sulla capitale, occupandone i punti nevralgici. La folle resistenza dei cittadini, che con fucili e mitra fronteggeranno i cannoni dei tank russi, sarà spezzata definitivamente il 7 novembre.
La restaurazione viene affidata a Janus Kadar, che immediatamente prende il controllo totale del partito attraverso una serie di epurazioni interne, arresti, deportazioni, falsi processi ed esecuzioni. La prima fase del “kadarismo” vedrà circa tredicimila incriminazioni, più di trecento esecuzioni capitali, e circa duecentomila profughi.
Intanto Imre Nagy, con la famiglia e altri suoi collaboratori, ha trovato asilo politico nell’ambasciata jugoslava fin dalla mattina dell’invasione. Il 22 novembre, dopo varie trattative con Kadar e i diplomatici russi, lui e gli altri rifugiati vengono convinti con un falso salvacondotto ad abbandonare la sede diplomatica di Belgrado, ma una volta fuori sono immediatamente arrestati dagli agenti del KGB e trasferiti in Romania.
Nel 1957 verrà riportato in Ungheria, dove subirà un processo farsa e condannato a morte. Verrà giustiziato il 16 giugno del 1958, in gran segreto, e seppellito nel cortile del carcere. Nei trentatré anni che seguiranno, “trentennio di anonima sudditanza” per dirla con le parole dello storico Geert Mak, la Rivoluzione ungherese e la figura di Nagy scompariranno dal dibattito politico e sociale.
Per i suoi funerali solenni, e la sua riabilitazione come eroe nazionale, bisognerà aspettare il 16 giugno del 1989, dove nella Hosok tere, di fronte a circa trecentomila persone, politici internazionali, capi dei partiti comunisti occidentali, in quella che era ancora la Repubblica popolare d’Ungheria si celebreranno contemporaneamente le esequie, in anticipo di qualche mese, del comunismo.
Con la caduta dei comunismi, la Rivoluzione del ’56 è diventata il punto fondamentale dell’identità magiara, al di sopra di ogni diatriba politica, imprescindibile anche per i partiti che hanno le loro radici nell’esperienza socialista. Nonostante ciò, il dibattito storico ancora aperto, e l’abuso a fini elettorali e molto forte, deformato nel suo significato di libertà in nazionalismo e oltranzismo, in deriva autoritaria che oggi preoccupa l’Europa.

Oltre alla Grecia, la cui situazione è sotto l’attenzione internazionale, l’Ungheria è un’altra grande malata della Comunità europea, il cui dramma ha però una risonanza mediatica inferiore. Sebbene la transizione post comunista l’abbia trovata più preparata di altre repubbliche popolari, grazie al “socialismo del gulash” kadariano che ha permesso una certa elasticità nell’iniziativa imprenditoriale privata e nelle relazioni economiche con l’occidente, la crisi odierna l’ha colpita pesantemente, e l’atteggiamento remissivo unito al vittimismo seccante degli ungheresi ne ha amplificato gli effetti sociali e democratici, portando il paese culla della cultura mitteleuropea a una deriva nazionalista, sull’orlo dell’isolamento economico.
Protagonista principale è l’attuale primo ministro Viktor Orbán, leader della formazione conservatrice Fidesz (Magyar Polgári Szovetség, Unione Civica Ungherese), che alle elezioni del 2010 ha ottenuto la maggioranza assoluta (oltre il 52%) dopo un ventennio di governo socialista. La sua coalizione di governo comprende il partito di estrema destra Jobbik (Jobbik Magyarországért Mozgalom), controllando così l’80% del parlamento (267 seggi per Fidesz, 47 Jobbik, su 386 totali), conferendogli poteri assoluti unilaterali, che non ha mancato di utilizzare nel 2011 riscrivendo la costituzione.
I punti che hanno fatto suonare numerosi campanelli d’allarme in Europa, sono: le restrizioni alla libertà di stampa, le limitazioni all’esercizio giornalistico e il controllo governativo delle Agenzie (ribattezzata “legge bavaglio”); la facoltà dell’esecutivo di nominare magistrati annullando così l’indipendenza del “terzo” potere; una tassazione elevata per le imprese straniere che ha ridotto gli investimenti; e «il diritto dell’Ungheria sul destino degli ungheresi che vivono oltre confine», esacerbando ancora una volta i rapporti con i vicini sul rispetto delle minoranze, materia nella quale è particolarmente attivo per violenza e sciovinismo l’alleato xenofobo Jobbik.
Si rivoterà l’anno prossimo per il rinnovo del parlamento, intanto quest’involuzione, come accennato, si sta trasformando in isolamento economico e «preoccupazione circa il rispetto dello Stato del Diritto dell’Unione e delle norme del Consiglio d’Europa». Un (altro) buco nero democratico del quale si parla troppo poco.